lunedì 15 settembre 2008

Il giorno più lungo


È così che ci si sente oggi, tra noi ammiratori di D.F.Wallace, dopo che nel bel mezzo di ieri pomeriggio, siamo stati scossi da un breve trafiletto apparso sui siti internet, le cui dimensioni mal si addicevano alla tragicità della notizia. Eravamo insoddisfatti, certo. Quelle poche parole, mal messe assieme, non avrebbero potuto convincerci che Wallace avesse davvero stretto una corda attorno al collo, dimostrandoci come fosse facile distruggere, con un gesto irrisorio, una delle menti più luminose dell’ultimo secolo, a cui la nostra devozione aveva fatto credere essere intrisa di immortalità divina.
Abbiamo dovuto affrontare un giorno di sospensione e angoscia, prima di poter leggere in articoli dettagliati della Repubblica e del Corriere della sera, che tutto era vero. D.F.Wallace è morto. Anzi, si è ucciso a 46 anni, impiccandosi. Un gesto che, per rabbia, ancora non riesco a perdonargli. Neanche leggerlo sul giornale mi ha fatto sembrare la notizia verosimile. Ho dovuto attaccare gli articoli sulla parete, con lo scotch, per poterli tenere in vista tutta la giornata, mentre studiavo, mangiavo, rimettevo in ordine. Alla fine ho capito.

Autore di qualsiasi cosa, dai suoi libri alle liste della spesa compilate per andare al mercato sotto casa – mi piace immaginarle ricche di particolari assolutamente insignificanti e stupendi -, lascia un vuoto incolmabile in chiunque si sia scontrato con la sua prosa. Sì, “scontrato” è proprio la parola giusta. Perché niente assomiglia al modo di scrivere di D.F.Wallace, primo autore a creare un connubio formidabile tra linguaggio letterario e matematico – tipo “il diavolo e l’acqua santa” -, che mai si sarebbe immaginato così fruttuoso. I suoi periodi chilometrici sono intrisi di un’ossessione folle verso i particolari, a cui dedica ogni doverosa attenzione, fino a farli risplendere di significato indotto. Genio, oltre che scrittore, insomma.

La cosa che mi ha fatto più male oggi, è stato leggere articoli scritti da giornalisti che, palesemente, non si sono mai accostati alle sue opere, ma hanno preferito mettere su elogi memorabili tratti direttamente da wikipedia – in particolar modo la definizione di massimalista in contrapposizione con quella minimalista appioppata per l’ennesima volta a Carver. Sarei curioso di vedere Wallace alle prese con questi articoli, e magari venir fuori come il cadavere africano di Hemingway, gridando, “ehi, non sono ancora morto!”.
Adesso in molti, quei poveretti che ancora non lo conoscevano, si immergeranno con spirito di venerazione nella sua opera, e questo mi fa piacere. La letteratura, la grande letteratura, ha il merito di rendere i suoi fautori immortali. Ma per adesso, questo pensiero non riesce proprio a consolarmi.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

La persona che ha una così detta "depressione psicotica" e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette "per sfiducia" o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l'invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un'occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l'altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano "No!" e "Aspetta!" riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.
D.F.Wallace

non sono se sono più triste per la sua morte o per il dolore che deve aver provato in vita; perchè deve aver provato un grandissimo dolore per uccidersi così.

Anonimo ha detto...

una perdita incolmabile.