venerdì 22 maggio 2009

Sceneggiatori


La settimana scorsa mi sono arrivate 2 mail quasi identiche, che affrontavano questo tema: il passaggio dalla scrittura di narrativa, alla scrittura cinematografica; entrambe consideravano la carriera di sceneggiatore come unica alternativa alla fame eterna. Siccome in questi ultimi anni ho provato un profondo interesse per il mondo della scrittura cinematografica (interesse più ludico che economico), e siccome non sono molto d’accordo con la conclusione a cui giungono le mail, colgo l’occasione per parlarne. Premessa: non sono uno sceneggiatore, né un addetto ai lavori; esprimo opinioni in base alla mia esperienza e alle informazioni che ho raccolto in giro. Grazie cari.
A mio parere, il primo ostacolo da affrontare è capire se siamo adatti a scrivere sceneggiature, nel senso che non sempre un bravo scrittore si rivela essere un bravo sceneggiatore, e naturalmente vale anche il contrario. Molto dipende dal nostro approccio col testo; la sceneggiatura è un affare molto più tecnico rispetto a un romanzo. In un libro, al di là di una serie di regole che è buona norma seguire, la mappa generale tende a piegarsi facilmente alla volontà dello scrittore, mentre la sceneggiatura è più rigida, a causa delle fasi in cui è scansionata (soggetto, trattamento, sceneggiatura). Nel soggetto definiamo i personaggi, le azioni, la trama. È una delle parti più creative (in pratica hai un foglio bianco e devi scriverci quello che succede), l’unica differenza con un libro è che non devi rendere i vari passaggi della storia “letterabili”. Stiamo parlando di un testo lungo massimo 4-5 cartelle dattiloscritte, perciò è facile capire quanto sia importante dire molto con meno parole possibili. Questo per alcuni scrittori è un vantaggio perché si arriva subito al dunque, per altri invece è frustrante perché vedono il proprio stile disintegrarsi. Per quanto mi riguarda, penso si tratti semplicemente di assumere una diversa prospettiva: le marche stilistiche non si legano più alle parole, ma direttamente agli eventi della storia. La nostra personalità penetra nel racconto attraverso ciò che accade (in realtà dovrebbe succedere anche in un romanzo, in quelli migliori succede). Detto così sembra facile e bello, ma il cambiamento è radicale: non possiamo entrare nei personaggi e spiegarli, dobbiamo rendere visibili i loro sentimenti, perciò bisogna ragionare esclusivamente in termini di azioni. Quello che non si vede non succede. Per assicurarci che il pubblico veda e senta tutte le fasi più importanti del film, dobbiamo progettare esattamente l’ordine e la gerarchia degli eventi. È impossibile affidarci all’improvvisazione. Quindi, le variabili che intervengono nello stabilire la nostra propensione a questo tipo di scrittura sono: (A) capacità di strutturare una trama; (B) approccio metodico al testo (non alla Kerouac, tanto per intenderci). Se vi mancano queste due qualità, lasciate perdere.

Una volta buttato giù il trattamento, si passa ai dialoghi della sceneggiatura, che sono la parte più divertente. Qui si torna alle origini, perché le scene dialogate sono un qualcosa di cui abbiamo già una forte esperienza diretta, sia come lettori, sia come scrittori. Quando tutto è finito però, c’è qualcosa che non quadra. Che cosa abbiamo tra le mani? Magari il nostro lavoro è buono, o magari non lo è, sta di fatto che è ancora un lavoro a metà. Ci vorrà un ulteriore passaggio per trasformarlo in un film: la regia. Una pessima regia può rovinare una fantastica sceneggiatura, inoltre una buona regia può essere ridimensionata da un pessimo cast di attori, o da una brutta scenografia, o semplicemente da un baget ridotto. Le variabili sono parecchie e di difficile controllo. Il problema di uno scrittore, quando lavora nel campo del cinema, è accettare l’idea della sua parzialità (problema che in letteratura non si pone, poiché lo scrittore è un Dio che controlla praticamente ogni cosa). Forse questa è la parte più difficile. D’altra parte, si condivide la responsabilità di un eventuale fallimento con una serie di persone, il ché non è male. È una questione di punti di vista, l’importante è capire che si tratta di due forme di scritture imparentate, ma molto diverse.

Lato economico. Non c’è dubbio che sia più facile arricchirsi scrivendo per il cinema, soprattutto considerando il rapporto Lavoro/Compenso, che in letteratura pende drammaticamente dal lato sbagliato. Ma quanto lavoro c’è? In Italia si producono così tanti film? Non credo proprio. È plausibile sostenere che ci sono centinaia di sceneggiatori che ringraziano Dio se hanno l’opportunità di lavorare una volta l’anno. Un mercato più florido è sicuramente quello delle fiction, ma qui i compensi sono più bassi, e poi si tratta di uno schema narrativo in parte diverso dai film, trattandosi di prodotti seriali. Quindi altro studio, altro lavoro di applicazione.

Per tirare le somme, se pensate di passare da una sponda a un’altra solo per avere guadagni facili, scordatevelo. Come in letteratura, c’è un sacco di gente che vuole emergere, e nella migliore delle ipotesi è più motivata e preparata di voi. Fatelo solo se nutrite una passione sincera per il cinema e per il LAVORO di scrittura, oltre ad avere una ferrea volontà di apprendere.


Per chi fosse interessato suggerisco due manuali fondamentali da leggere in quest’ordine:
1) IL VIAGGIO DELL’EROE, Vogler, Dino Audino editore
2) COME SCRIVERE UNA GRANDE SCENEGGIATURA, Seger, Dino Audino editore (non fatevi ingannare dal titolo, è un manuale splendido)


Per altre informazioni (scuole, concorsi, ecc…) http://www.sceneggiatori.com/

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