giovedì 8 ottobre 2009

Che delusione il cinema italiano


Quest’anno aspettavo con ansia la triade italiana sfilata al festival di Venezia e tornata a casa senza il becco di un riconoscimento (attori a parte). E l'aspettavo non tanto perché i film mi fossero sembrati particolarmente brillanti attraverso i canali mediatici con cui ho vissuto le anteprime (trailer, articoli, animate discussioni televisive tra critici); gli elementi su cui facevano affidamento le mie speranze partivano dai forti segnali dell’anno passato “Gomorra” e “Il Divo”, che sembravano aver lanciato un sassolino nel lago stagnate del cinema italiano da cui, non dico dovesse svilupparsi un’onda anomala e inarrestabile, ma quanto meno una timida corrente che andasse verso un’inesorabile ripresa (seppur lenta) di tutto l’ambiente. Invece mai come oggi mi sento disilluso, e inizio a pensare che i fenomeni Garrone e Sorrentino (i cui ultimi e bellissimi film non sono neanche i loro lavori migliori) siano un caso isolato, piuttosto che un segnale di ripresa. Se mi illudevo che stesse per succedere qualcosa, insomma, mi sa che ho toppato di brutto.

Il grande sogno: la pellicola di Placido è adolescenziale, a volerle fare un complimento. La regia è buona, come lo era in “Romanzo Criminale”, ciò che manca rispetto a quel film è una sceneggiatura di una qualche consistenza (e qui sarebbe ora che i produttori imponessero ai registi di affidarsi a scrittori di professione per il testo, invece di lasciarli in balia della loro folle ispirazione che spesso si riduce ad arrangiare assieme roba sentita qua e là). La storia si svolge così: un giorno c’è la vita normale, un altro giorno un ragazzo viene bocciato a un esame e … il 68! Ma la cosa più fastidiosa è che i personaggi sono assolutamente stereotipati, e di conseguenza i dialoghi risultano prevedibili e banali, arrivando a suscitare nello spettatore un senso di tenerezza verso gli attori, tenerezza che si trasforma in pietà o addirittura rabbia in caso di accertata parentela con un membro della compagnia. Il film si riprende un po’ nell’ultima mezz’ora, a seguito di un paio di colpi di scena, ma ormai è davvero troppo tardi. Vi giuro che dopo i primi dieci minuti volevo alzarmi e tornarmene a casa, sensazione che prima d’ora avevo provato solo con “La mano de Dios” di Risi figlio.
Placido ha passato il dopo festival a sbraitare (giustamente) contro le offese arrivate da membri del governo, nani e non, senza sapere che proprio alle polemiche deve un successo di pubblico altrimenti inspiegabile, perché dubito che il passaparola abbia aiutato.
Ho letto un articolo che parlava male del film, ma che chiariva le attenuanti già nel titolo Com’è difficile raccontare il 68’. Mi permetto di dissentire. Senza far riferimento ai capolavori del neo-realismo capaci di concentrare nella storia di un individuo tutta la sofferenza di un periodo storico, vi dirò: guardatevi “Milk”. I temi trattati sono simili: movimento di massa e rivoluzione politica, in un contesto intriso di scetticismo e bigottismo; solo con i gay all’arrembaggio al posto dei marxisti. Il film è un capolavoro commovente, che ha il merito di non dare mai la conoscenza degli avvenimenti per scontata.

Baarìa: il discorso per Tornatore è diverso. Se quello di Placido è un film riuscito male, questo è un film che poteva riuscire meglio. Durante la prima ora e mezza ho assistito al Tornatore già visto e apprezzato, padrone di una poetica che diventa una marca stilistica, una chiave capace di trascinare il pubblico nello scrigno segreto in cui riposa il passato del regista. Alla pausa pensavo è impossibile che il film possa perdere l’Oscar, e invece dopo aver assistito alla seconda ora e mezza sono sicuro che lo perderà. In pratica Tornatore, che alla prima pausa ha quasi esaurito la storia del cambio generazionale, ha la pessima idea di arrivare anche alla terza generazione. Il film subisce un’accelerazione brusca e innaturale, che lo porta a toccare di striscio tutti gli eventi della storia italiana fino ad arrivare ai giorni nostri … e poi torna indietro! A quel punto il pubblico è veramente stanco. Io mi sono sentito fortunato a vivere nel 2010, perché se la storia italiana fosse durata altri 30 anni il film sarebbe andato avanti ancora per un’ora.
La seconda parte della storia risulta noiosa, e soprattutto superflua, perché viene utilizzata dal regista per tirare i troppi ami lanciati in precedenza (smarrimento di oggetti magici, ecc.) a cui lo spettatore non sente il bisogno di abboccare perché se ne era assolutamente dimenticato, o, quanto meno, gli erano già sembrati poetici e perfetti nella loro incompiutezza. Ancora una volta la forbice del produttore sarebbe stata gradita.
Facendo un paragone con “Nuovo Cinema Paradiso”, poi, si riscontra la debolezza dell’obbiettivo del protagonista, che sembra non trascinare il pubblico in sala. Se infatti il sogno di diventare regista riesce a coinvolgere lo spettatore per il suo carattere universale, quello di diventare politico soltanto all’inizio è vissuto come un sogno puro, mentre nella seconda parte viene sporcato dall’impatto con la realtà; e allora diventa quasi voglia di arrivismo, più che voglia di essere, di fare, e questo accade senza che il protagonista subisca un cambiamento consapevole. Mano a mano sentiamo che il nostro legame col film, il nostro coinvolgimento, si affievolisce, finché viene a mancare.
Solo ora mi spiego l’incertezza con cui molti critici commentavano il film, probabilmente tormentati tra lo spettacolo del primo tempo e quello del secondo. È impossibile consigliarlo o sconsigliarlo. Andate a vederlo e fatevi un’idea.

Il terzo film “Cosmonauta” (che mi dicono essere più riuscito) mi sono rifiutato di vederlo, perché si concentra sullo stesso periodo storico degli altri due, e alla monotonia c’è un limite.

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